Ogni mese porta con sé un’energia inconfondibile. Aprile, con il giorno che si allunga e i germogli che esplodono, evoca spontaneamente l’idea di rinascita e rigenerazione, che sembra in contraddizione con il pesce dispettoso che lo inaugura ogni anno. Poi interviene un incontro casuale con un libretto di Carl Gustav Jung, Sul rinascere, e si scopre che il tema della rinascita attraversa culture, religioni e simbolismi di ogni tempo: dai miti alchemici alle cerimonie dei Navajo, fino al Corano. E proprio nella diciottesima sura si racconta un episodio enigmatico: Mosè e il suo servo, Jošua ben Nũn, giungono alla confluenza dei due mari, si emozionano e dimenticano il pesce che portavano con sé nella cesta del pranzo. Il pesce, approfittando della distrazione, si tuffa e prende libero la via del mare. Appena i morsi della fame cominciano a farsi sentire, il servo si accorge che il pesce è scomparso e nel punto in cui si è tuffato - narra il commento alla sura – essi scorgono che il mare si è fatto solido, è apparsa un’isola al cui centro siede al-Khidr, figura di luce e trasformazione, quasi che lui stesso fosse quel pesce dimenticato.
Quel pesce non è solo un dettaglio narrativo: è un simbolo. Rappresenta qualcosa di piccolo, apparentemente insignificante, che però racchiude in sé una potenza trasformativa immensa. È il nucleo di un mistero di rinascita. Mosè è l’uomo della coscienza e della ricerca; il servo è la sua ombra. E il pesce? È ciò che li collega: la forza vitale, l’energia primordiale che, una volta libera, dà inizio al cambiamento. Il pesce è il tramite fra coscienza e inconscio. Nel pensiero alchemico il pesce ritorna ancora, è rotondo senza ossa né pelle, è il filius Philosophorum, un’entità marina che incarna il nucleo della pietra vivente. L’acqua, permanens et vivificans, è l’elemento che scioglie i solidi e coagula i fluidi, è la grande protagonista di questi racconti di trasformazione e di rinascita.
Questa storia parla di noi, del nostro rapporto con ciò che è invisibile e profondo: con l’inconscio, con il corpo, con la malattia. Nella medicina omeopatica, che pratico ogni giorno come farmacista, l’acqua ha un ruolo di mediazione imprescindibile: è mezzo, memoria, veicolo di trasformazione. È in apparenza semplice, ma porta con sé un sapere antico, misterioso, potente. Numerosissimi studi scinetifici, che partono dalle ricerche di grandi fisici come Del Giudice e Preparata, dimostrano oggi che l’acqua in cui è stata solubilizzata e diluita una parte di sostanza molto, molto oltre il famigerato numero di Avogadro, preso a simbolo della permanenza dell’ultima molecola nella soluzione, ha una struttura diversa rispetto a un analogo volume di acqua a parità di condizione. E ancora diverso dalla prima soluzione è il pattern che manifesta un’identica soluzione che sia stata sottoposta a succussioni. Nel 2025 è possibile affermare ancora che l’acqua custodisce nella sua trasparenza molto più di quello che sino a oggi siamo riusciti a vedere.
Le ricerche contemporanee non fanno che corroborare quello che sorprendentemente Samuel Hahnemann, fondatore dell’Omeopatia, colse per intuizione e osservazione. Egli scorse un legame tra ciò che è apparentemente insignificante (o persino nocivo e velenoso) e il potere trasformativo della diluizione e della dinamizzazione all’inizio del 1800. Nell’Organon dell’arte di guarire (sesta edizione), in particolare nel paragrafo § 269, Hahnemann descrive il concetto di potentizzazione: un processo attraverso il quale la sostanza, diluita e agitata ritmicamente (succussione o triturazione), libera la propria forza latente, anche quando non manifesta alcuna attività terapeutica allo stato grezzo.
La nota 4 al paragrafo 269 è molto significativa. Hahnemann vi scrive che si sente ancora qualcuno riferirsi alle potenze dei medicinali omeopatici soltanto come «diluizioni», ma esse sono l’esatto contrario, in quanto sono in grado di aprire la materia prima che costituisce le sostanze naturali e portarne alla luce le specifiche forze medicinali che giacciono di solito nascoste al loro interno. Questo lo si ottiene strofinando (qui si riferisce alla solubilizzazione degli insolubili mediante triplice triturazione centesimale) e scuotendo la materia grezza in un mezzo non medicamentoso di diluzione, preso per aiuto, come «condizione accessoria», affinché attraverso le dinamizzazioni (scuotimenti verticali energici e decisi) si accresca «alla forza più degna di meraviglia».
È un principio che riecheggia con forza il messaggio contenuto nella metafora del pesce dimenticato: ciò che sembra irrilevante può contenere un'energia capace di trasformare, di guarire, di rinascere. La potentizzazione non è solo un procedimento tecnico-scientifico, ma anche una visione filosofica: la possibilità di risvegliare, attraverso l’azione dell’acqua e del movimento verticale, un potenziale che la materia da sola non mostra. Così come il pesce si tuffa e si dissolve nell’acqua per ritrovare sé stesso, anche i ceppi omeopatici, le sostanze di partenza, si “liberano” attraverso l’acqua per diventare agenti di cambiamento profondo. E lo fanno diventando invisibili e irrilevanti per la chimica tradizionale.
All’incrocio dei due mari, l’acqua si trasforma in isola e luce e il pesce rinasce nel divino. Anche nell’uomo il processo di trasformazione avviene spesso al confine tra visibile e invisibile, tra scienza e mistero, tra corpo e coscienza e prende le mosse dall’incontro con la parte più oscura, dal tuffo dentro ciò che non si sa di essere, per diventare ciò che si è, ma che non si era.
Il pesce dimenticato ci ricorda che la rinascita spesso non parte da gesti eclatanti, ma da ciò che è marginale, trascurato, invisibile. Dall’incontro con la nostra “ombra”, con ciò che non vediamo ma che ci appartiene profondamente. In medicina, come nella vita, è lì che spesso inizia il vero viaggio verso la guarigione.
Cecilia Gabrielli